Storia della Principessa Jeanne Ghyka - Una mente visionaria che ha dato il suo tocco ai Giardini di Villa Gamberaia
Villa Gamberaia

Storia della Principessa Jeanne Ghyka - Una mente visionaria che ha dato il suo tocco ai Giardini di Villa Gamberaia

Quando la principessa Jeanne Catherine Ghyka — nata Kesco — incontrò per la prima volta Villa Gamberaia, la dimora versava in un lento declino. Fu Carlo Placci, esteta fiorentino e figura letteraria profondamente immersa nei circoli intellettuali della città, a raccontarle che la villa giaceva in uno stato di abbandono. Jeanne, rapita dalla sua solitudine poetica e dalla posizione magnifica sul vallone dell’Arno, se ne innamorò all’istante. Era il 1896, e sebbene il suo matrimonio con il principe moldavo Eugène Ghyka stesse ormai volgendo al termine, il desiderio di restaurare e abitare la villa divenne inarrestabile.

Nata a Nizza nel 1864 da Pulcherie Sturdza e dal generale Pietro Kesco — proprietario terriero in Bessarabia e ufficiale dell’esercito imperiale russo — Jeanne perse i genitori in giovane età e fu cresciuta dagli zii, tra Bucarest e Odessa. Come molte giovani donne della sua classe, completò la sua formazione a Parigi, studiando pittura, scultura, musica e lingue. La capitale francese, con i suoi salotti, le correnti d’avanguardia e le libertà intellettuali, la segnò profondamente. Scultora di formazione e donna di intensa introspezione, Jeanne si sentiva attratta da un’esistenza dedicata all’arte e alla contemplazione, frequentando solo marginalmente i salotti alla moda della sua epoca.

Il matrimonio con Ghyka, come molti unioni aristocratiche del tempo, era stato un accordo familiare. Ma Jeanne era, a modo suo e con grazia silenziosa, una ribelle. Decisa a fare propria Villa Gamberaia, dovette affrontare le difficoltà legali e sociali della fine dell’Ottocento, quando per una donna non era affatto semplice acquistare una proprietà — tanto meno di tale portata. Eppure, con ostinazione e grazie alla mediazione di Placci, riuscì a ottenere la villa, in un gesto tanto audace quanto simbolico di indipendenza.

In quegli anni Jeanne era ormai inseparabile dalla pittrice americana Florence Blood, conosciuta a Parigi. Il loro legame — affettuoso e creativamente simbiotico — suscitò non poche speculazioni, ma si fondava su una visione condivisa. Florence, più estroversa e pratica, bilanciava la natura poetica e introspettiva di Jeanne. Insieme trasformarono Gamberaia in un rifugio e in un faro di discreta eleganza.

Mentre Florence intratteneva gli ospiti, dipingeva tele dal gusto cézanniano e organizzava cene in costume nei saloni della villa, Jeanne si aggirava nei giardini, scolpiva la pietra e sorvegliava con attenzione ogni dettaglio del loro rinnovamento. Pur nella sua indole riservata, non fu mai distaccata: portava aiuto e medicine ai villaggi di Settignano, ed era silenziosamente amata per la sua generosità.

Intorno a lei, però, nacquero miti e leggende, simili a nebbie mattutine. Si diceva che passeggiasse al crepuscolo nei giardini, velata di garze, evitando specchi e riflessi, forse temendo i segni del tempo. Raccontano che, quando la sua bellezza cominciò a sfiorire, fece rimuovere tutti gli specchi dalla casa. Bernard Berenson, storico dell’arte e ospite abituale, la definì “narcisista”, assorbita interamente dal proprio aspetto — ma il suo giudizio tradiva forse più un disagio maschile di fronte all’autonomia femminile che non la verità del carattere di Jeanne.

Di certo, sotto la sua cura, Villa Gamberaia divenne un crocevia dell’élite internazionale delle arti e delle lettere: Leo e Nina Stein, Neith Boyce e Hutchins Hapgood, Edward Bruce, Léon Bakst, Adolf von Hildebrand, Egisto Fabbri, Charles Loeser, Arthur Acton e, naturalmente, lo stesso Berenson. Dalla vicina Villa I Tatti a Poggio Gherardo e Villa Medici, le colline tra Settignano e Fiesole pulsavano allora di un’energia culturale straordinaria.

Il lascito più duraturo della Ghyka resta però il giardino — anzi, il suo giardino. Fu lei a reimmaginare radicalmente il tradizionale parterre de broderie, sostituendolo con un parterre d’eau: scelta audace e quasi sacrilega per i puristi, tanto più perché compiuta da una donna e, per giunta, straniera. Eppure la sua visione — lirica, serena e insieme modernissima — trasformò i giardini di Gamberaia in uno specchio vivente di cielo e pietra, in un luogo di bellezza senza tempo destinato a ispirare generazioni di paesaggisti nel mondo. In questa impresa fu affiancata dal giardiniere Martino Porcinai, la cui dedizione alla proprietà sarà poi raccolta dal figlio Pietro, destinato a diventare uno dei più grandi architetti del paesaggio del Novecento.

Oggi Gamberaia resta inseparabile dalla memoria della sua visionaria padrona di casa — “la Ghyka”, come ancora affettuosamente viene chiamata. Il suo spirito aleggia nella luce che sfiora le vasche di pietra al tramonto, nella geometria delle siepi e nelle acque specchianti, in quel senso di grazia contemplativa che permea ogni angolo della villa.


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